Nuovo appuntamento con “From Time To Time” by Electricity. Un modo per ricordare la musica buona che è stata e quella che potrebbe essere.
Sì, è vero. Il tempo fugge, la polvere si accumula, la ossa cominciano a scricchiolare… ma passa tutto in un attimo quando è tempo di “CELEBRARE FORTE”.
E questo ovviamente è uno di quei momenti. Nonostante i troppi ricordi ce la faccio, mentirei sapendo di mentire se affermassi il contrario. Non ero lì ad “accoglierlo”, il 14 settembre 1996, ma al Palazzo dei Padiglioni Auricolari “IN A BAR, UNDER THE SEA” è giunto per la prima volta poco tempo dopo e non se n’è più andato da li’.
Quando serviva un ascolto c’era sempre, anche come sorta di amuleto: come per i quarti di finale di Euro 2020, quando per Italia – Belgio ho “schierato in campo” i Deus, convinto che dopo per gli avversari non ci sarebbero state più occasioni ( sono solito da tempo, per puro diletto, sottolineare ogni partita di Europei o Mondiali di calcio con due brani, uno per Nazione ). È andata bene e si sono innescati dei sortilegi sonori a catena che han scaramanticamente contribuito a riportarla a Roma dopo 53 anni.
Quisquilie sportive a parte, tornando alla musica, due notizie per gli eventuali neofiti: provenienti da Anversa dove nacquero circa trent’anni fa e capitanati dal cantante e chitarrista Tom Barman(al fianco del quale nel tempo è rimasto del nucleo originario il solo Klaus Janzoons), i Deus sono 3 ottimi titoli (1994-1999) e un più che onesto invecchiare(altri 4 lavori dal 2005 al 2012).
“IN A BAR, UNDER THE SEA”, è il pannello centrale del primo trittico, preceduto da “WORST CASE SCENARIO”, l’esordio a sensazione, quello dell’inno “Suds & Soda” e “THE IDEAL CRASH”, il lavoro della maturità e lo splendido calco da cui prenderà forma il suono dei Belgi nel nuovo millennio.
Sulle intuizioni e le stravaganze “arty” dell’album altre band ci avrebbero forse intere discografie, ma i Deus implementano la quantità di rimandi e riferimenti del primo disco e si divertono a spiazzare quasi pezzo dopo pezzo.
Velvet Underground,Pixies,Sonic Youth,Violent Femmes, Captain Beefheart, da sempre fonti d’ispirazione per i nostri, s’intravedono qua e là più o meno in controluce. Il Capitano Cuor Di Bue spicca di più per la presenza di un suo vecchio sodale, Eric Drew Feldman come produttore e musicista (ospiti ulteriori: Scott McCloud dei Girls Against Boys, Dana Colley dei Morphine,Bart Maris degli X-Legged Sally) e per la connection anche artistica tout court con due membri della band (Rudy Trouvè, autore anche della copertina, e soprattutto Stef Kamil Carlens, il bassista e vocalist il cui abbandono causerà un po’ di perdita di verve friccicosa nel progetto, la cui assenza, va detto, si fa un po’ sentire ancora oggi).
E i brani quindi?
Beh, dopo il minuto iniziale registrato al telefono da Karlens, che dal titolo, “I Don’t Mind Whatever Happens”, la dice lunghissima, s’incontrano le frenesie simil-funk di “Fell Off The Floor,Man”; una misteriosa “Theme From Turnpike”, soundtrack per una spy story un po’ fuori dai canoni; “Little Arithmetics”, la prima ballad del disco (con tanto di veleno rumoroso nella coda), prologo per i 7 minuti e mezzo avvolgenti di “Gimme The Heat” che con la “Serpentine” a seguire forma una sequenza per cuori malinconici che, eventualmente ancora in piedi, capitoleranno sul dittico finale “Disappointed In The Sun/Wake Me Up Before I Sleep”, senza se e senza ma.
Ancora, fra le varie, il crescendo di tensione di “For The Roses”; il jazz di “Nine Threads”; i rumorismi waitsiani di “A Shocking Lack Thereof”, il break finto lounge di “Supermarket Song”e poi…che altro dire?
Difficilmente non desidererete alla fine del viaggio farvi un giro nel bar sotto il mare (Stefano Benni,ricordate?): il sottoscritto, che è pure dei Pesci e forse per questo si trova a suo agio come in pochi altri luoghi della mente, sarà lì ad attendervi per alzare un bicchiere e non parlare più della pioggia.
Ci potete contare, saranno bei momenti davvero.