(Adnkronos) – “Borsa? No, grazie”. Al calcio italiano, la quotazione nei mercati finanziari interessa poco e non conviene. Questione di strategie e mancanze strutturali, come le difficoltà incontrate nella costruzione di stadi di proprietà, ma anche di incertezza. Quella legata ai risultati sportivi. “L’investitore di Borsa è spesso un tifoso ed è soggetto ad alta volubilità, non considerando l’aspetto finanziario in sé ma solo la passione dei colori del cuore” spiega Gian Marco Salcioli, strategist di Assiom Forex, Associazione degli operatori dei mercati finanziari. Un mix non proprio ideale.
“Intanto – continua Salcioli – è necessario precisare che al momento le squadre quotate sono Juventus e Lazio, mentre la Roma ha effettuato il delisting nel 2022. La riluttanza ad accedere direttamente al mercato borsistico deriva da una serie di fattori”. Nel caso italiano, per esempio, il business sportivo ha poca presenza negli stock exchange. E c’è poi da considerare una generalizzata tendenza delle aziende italiane a essere assenti sui mercati, visto l’elevato numero di delisting rispetto alle nuove quotazioni. Un discorso evidente nel mondo del pallone, a cominciare dalla Juventus: “Nel caso dei bianconeri, dai massimi assoluti del 2019 (9.5 euro ad azione, ndr) il titolo ha perso gran parte del suo valore scivolando verso i minimi di 2 e un rimbalzo al momento di poco più di 3 euro. Nello stesso periodo di tempo, la sottoperformance rispetto all’indice di riferimento Ftse Mib, salito circa del 70%, è oggettiva”. E per la Lazio? “La società biancoceleste ha un grafico esemplificativo dell’assoluta mancanza di interesse, visti i suoi scambi bassissimi, volatilità limitatissima e quotazione che oscilla in range molto ristretti. Soprattutto, se si guarda all’orientamento a lungo termine. Per riassumere in modo finanziario, le tendenze sono decorrelate dall’indice azionario in senso stretto, manifestando quindi cause specifiche sull’andamento societario. Dal massimo di 2 euro del 2020, adesso le quotazioni della Lazio sono attorno a 1,1 euro”.
L’altro tema speculare riguarda l’assenza di tante squadre dai listini. “Diversi club importanti, come Inter, Milan, Fiorentina e Atalanta non hanno neppure manifestato l’idea di volerlo fare a breve”. I motivi sono diversi: “In primis, tante squadre italiane sono gestite da famiglie o gruppi privati che preferiscono mantenere il controllo decisionale, senza influenza di azionisti esterni”. In questo senso, la quotazione in Borsa comporterebbe diluizione del capitale di questo controllo. “E poi, nel caso di acquisto da parte di gruppi esteri si preferisce la forma del private equity o del venture capital, in modo da poter beneficiare direttamente del guadagno relativo alla vendita futura della società senza avere i passaggi classici e più formalizzati delle procedure del mercato quotato”. Da Inter (Oaktree Capital Management) a Milan (RedBird) e Fiorentina (Rocco Commisso), sono diverse le proprietà americane nei club della penisola. “Molti – spiega Salcioli – entrano sul mercato come finanziatori in condizioni di debito distressed, divenendo azionisti in caso di mancata restituzione del credito concesso, in squadre in cui si valutano potenziali di aumento di valore. Come nel caso del passaggio da Suning a Oaktree visto per i nerazzurri”.
Un altro tema che potrebbe sembrare banale è che le performance sul campo influenzano direttamente il valore delle azioni. “Una stagione negativa può portare a una diminuzione del prezzo delle azioni, creando instabilità finanziaria e insoddisfazione tra gli investitori. Il problema di base è che il risultato sportivo è aleatorio e incerto per definizione, proprio come oggetto della gestione caratteristica”. La considerazione di base è che l’investitore è spesso un tifoso.” E dunque, nelle scelte, non considera solo l’aspetto finanziario in sé, ma anche la passione”.
Come sottolineato da Salcioli, un punto non trascurabile riguarda la gestione: “La quotazione richiede elevati standard di trasparenza e rendicontazione che talvolta sono onerosi non solo in termini finanziari, ma che rendono necessarie strutture ad hoc. Alcuni club potrebbero non essere pronti o disposti a soddisfare tali requisiti, preferendo operare in modo tradizionale. La questione spesso sottovalutata, e non intuitiva, è che le società di calcio italiane sono grandi nei cuori dei tifosi, ma hanno fatturati da piccola e media impresa di un settore normale. E questa semplicità è un limite oggettivo difficile da superare in tempi brevi”. Come si può intuire, l’asset principale è rappresentato dai giocatori, soggetti a un elevato grado di svalutazione e a rischi specifici che ne comportano la compressione del valore (dagli infortuni ai periodi più complicati, magari di forma non ottimale). “Inoltre, molte società ricorrono al player trading, cioè alla compravendita di giocatori per realizzare plusvalenze con cui coprire le perdite derivanti dalla gestione ordinaria”. I costi legati alla squadra rappresentano dunque la parte dominante e comprendono i salari netti dei giocatori, contributi previdenziali e premi contrattuali. “Nella maggior parte dei club anche italiani – precisa l’esperto – possono arrivare fino al 60-70% del budget totale. A questi si aggiungono i salari di allenatori, assistenti tecnici, preparatori atletici, fisioterapisti e medici che di fatto costituiscono un costo fisso di struttura. Nel calcio, i premi legati ai risultati sportivi costituiscono inoltre una parte molto piccola, che difficilmente supera il 10% del totale. E solo al conseguimento di risultati sportivi, difficili e per pochi”. Come lo scudetto o la qualificazione in Champions League.
La struttura dei fatturati fa emergere un’altra verità: “Nonostante il global reach e il numero di tifosi spesso sparsi per il mondo, i numeri sono quelli di un’azienda di piccole o medie dimensione di settori non sportivi. Dagli ultimi dati a nostra disposizione, condivisi da Deloitte (pubblicati a inizio anno sui ricavi 2022-23, ndr), la Juventus ha ricavi per 432 milioni di euro, l’Inter per 378, il Milan per 385. Questo nonostante fonti importanti, come i diritti televisivi, il merchandising e gli incassi da matchday. Mancano, tolta la Juve, le revenue che molte società estere hanno da tempo con la costruzione di stadi di proprietà”. Asset tangibili, che consentono flussi di ritorno degli investimenti e che possono ospitare concerti o altri spettacoli, generando reddito extra durante i periodi in cui non ci sono partite. Oltre ad attività commerciali parallele, che possono configurarsi come una significativa fonte di guadagno grazie a contratti di sponsorizzazione o biglietti premium. Non a caso, negli ultimi anni tante società – come Milan, Inter e Roma – stanno cercando di battere questa strada, nelle mille difficoltà legate al contesto. “Molti club con stadi di proprietà sviluppano progetti più ampi intorno allo stadio, creando poli sportivi e di intrattenimento per tifosi e turisti. Anche al di fuori delle partite, permettendo flussi reddituali non direttamente legati alle performance sportive e dunque più stabili per definizione”.
E fuori dall’Italia qual è l’approccio del calcio nei confronti dei mercati? “In altri Paesi europei – precisa Salcioli – diverse squadre hanno scelto la quotazione in Borsa per raccogliere capitali e aumentare visibilità internazionale. Lo hanno fatto il Manchester United in Inghilterra, l’Ajax in Olanda e il Borussia Dortmund in Germania, quotandosi e utilizzando i mercati per finanziare progetti. Come l’acquisto di giocatori o la costruzione di infrastrutture. Tuttavia, alcuni studi hanno dimostrato che la quotazione in Borsa non garantisce necessariamente migliori risultati sportivi o finanziari”. Proprio per l’aleatorietà intrinseca della gestione caratteristica. “Spesso, i fondi raccolti vengono utilizzati per risanare i bilanci piuttosto che per investimenti strategici”. (di Michele Antonelli)