Nel 2022 nessuno direbbe mai apertamente d’essere razzista. Domattina nessuno (o quasi) si alzerebbe con l’intenzione di rendere pubblico il suo senso d’appartenenza ad una razza superiore rispetto alle altre. Ma è proprio così? Se ho imparato qualcosa dai libri di storia è che l’essere umano ha sempre cercato di darsi un’identità in conflitto con le altre; se andassimo a studiare, per esempio, i nomi di varie tribù dei nativi americani, scopriremmo che il più delle volte questi si potrebbero sostanzialmente tradurre con “gli uomini”, “la gente”, come a dire: «noi siamo gli uomini, voi no». Ma potremmo fare anche esempi più familiari alla nostra cultura occidentale. I greci, infatti, identificavano se stessi e si univano solo in contrapposizione con tutto ciò che loro definivano barbaro, ovvero colui che non parla greco. Ed oggi il razzismo è scomparso? Assolutamente no.
La cronaca è ancora piena di episodi razziali. Ma quando anche il giornalismo si scopre rappresentato da soggetti intrisi fino al midollo di un forte senso di identità razziale, allora quel senso di disgusto che provavamo leggendo episodi sporadici di contenuto razzista diventa consapevolezza che il razzismo è ancora un male endemico e da estirpare.
Noi. Il razzismo dei media nella guerra in Ucraina.
Andiamo con ordine. Il 24 Febbraio i Russi sfondano il confine ucraino. Giornalisti, opinionisti e politici si sono dati da fare arricchendo (o impoverendo!) il racconto della guerra in vari modi. Il 25 Febbraio, il corrispondente della CBS Charlie D’Agata, dopo aver sottolineato la differenza tra l’europea Ucraina e la medio-orientale Afghanistan, ha espresso così il suo pensiero: «questa è una città relativamente civile, relativamente europea […] città in cui non te lo aspetteresti, o speri che accada». Ovviamente, queste non erano solo parole da evitare, ma smaschera un pensiero secondo cui la guerra, in determinati paesi, non solo viene accettata, ma è la normalità. Le scuse del giornalista sono state più goffe delle offese: con un «in a way I regret», D’Agata sembrava scusarsi più sotto costrizione anziché scusarsi dopo compreso sul serio di aver preso una toppa.
Il 26 Febbraio l’emittente britannica BBC ha ospitato, da remoto, David Sakvarelidze, politico polacco e georgiano, il quale ha definito la vicenda bellica commuovente «perché vedo persone europee con i capelli biondi e gli occhi azzurri che vengono uccise ogni giorno dai missili di Putin, dai suoi elicotteri e dai suoi razzi». Il presentatore ha reagito con un «capisco e ovviamente rispetto l’emotività». Non penso ci sia bisogno di commentare.
Sempre il 26 Febbraio, in onda su l’emittente francese BFM TV, il giornalista Philippe Corbe ha dichiarato: «non stiamo parlando di siriani in fuga dai bombardamenti del regime siriano sostenuto da Putin, stiamo parlando di europei che se ne vanno con auto che assomigliano alle nostre per salvarsi la vita».
Un discorso simile si ascolta il 27 Febbraio quando il presentatore inglese di Al Jazeera, Peter Dobbie, ha descritto i rifugiati ucraini come appartenenti alla classe media, della borghesia: «non sono assolutamente rifugiati che cercano di andare via dal Medio oriente. Loro sono come ogni famiglia europea». Per essere buoni profughi bisogna appartenere ad una determinata classe sociale? Le scuse via Twitter di Al Jazeera non sono mancate.
Il giornalista britannico Daniel Hannan è stato invece criticato per un articolo apparso su The Telegraph in cui si stupiva del fatto che la guerra non accade più nelle “popolazioni povere e remote”, ma anche in Europa. Una persona potrebbe dire che ha solo scelto le parole sbagliate, ma il punto è proprio questo: il lavoro di un giornalista è anche quello di saper trovare e usare le parole giuste.
Ma non ci sono solo i giornalisti ad aver parlato (male) a proposito del conflitto in Ucraina. In Bulgaria, il premier Boyko Metodiev Borisov ha dichiarato: «questi non sono i rifugiati a cui siamo abituati. Sono europei, persone intelligenti, istruite, alcuni sono programmatori informatici…questa non è la solita ondata di profughi di persone con un passato sconosciuto. Nessun Paese europeo ha paura di essi». Se questo non è razzismo, ditemi voi cosa è.
Anche nel nostro Paese i politici hanno preferito parlare anziché stare in silenzio. Parlare, ovviamente, è una libertà democratica che nessuno deve negare ad un altro essere umano; ma è anche vero che bisognerebbe imparare a parlare per arricchire e a stare in silenzio quando non si ha nulla da dire. Nel nostro caso, Matteo Salvini, leader della Lega, si è dimostrato aperto ad aprire le frontiere del nostro Paese ai profughi ucraini solo in quanto essi fuggono da una «guerra vera» – e questo fa degli ucraini «profughi veri». Al di là della felicità con cui abbiamo accolto la notizia secondo cui anche il centro-destra sarebbe stato pronto ad accogliere i profughi ucraini, dovremmo chiedere a Salvini quali sono le guerre false e chi sono i profughi falsi (e quale è il suo metro di misura per stabilirlo!).
Loro.
Lo storico Franco Cardini, in diretta web al programma “L’aria che tira“, sottolineando il disagio che si prova a commentare le immagini dei profughi dalla guerra, ha suggerito quanto noi occidentali dovremmo farci un esame di coscienza. Col suo discorso torniamo indietro fino al 1994 «quando la Nato ha cominciato ad attaccare la Bosnia. Non ci sono bambini che si stringono ai loro peluche o vecchiette che attraversano la strada soltanto a Kiev. Noi bambini coi peluche o vecchiette che attraversavano la strada, quando bombardavamo Belgrado, non li abbiamo visti. Non ce li hanno fatti vedere. Come non ci hanno fatto vedere bambini e vecchiette nel 2003, quando noi vedevamo i bombardamenti di Bagdad».
E questa distorsione del mondo, già illustrata dal racconto dei media sulla guerra, è descritta efficacemente dal filosofo Alessandro Del Lago. Secondo lo studioso, l’opinione pubblica non reagisce alla realtà, ma ad una combinazione tra il sistema mediale e il sistema politico: in pratica noi reagiamo ad un evento di per sé immaginario e non del tutto reale. Un esempio pratico è stato, per l’appunto, la lettura offerta dell’accoglienza ai profughi ucraini perché europei. E coloro che in Ucraina non sono europei?
Il quotidiano sulla Sicurezza internazionale, agli inizi di Marzo, ha denunciato il mancato soccorso ai profughi nigeriani e sudafricani in fuga dall’Ucraina. Si scrive: «il rifiuto di accogliere rifugiati non bianchi “conferma ancora una volta che il colore della pelle è di per sé un passaporto”». Già il 28 Febbraio, Mehdi Chebil scriveva per france24 che «la Nigeria e il Sud Africa hanno espresso allarme per le notizie secondo cui i loro cittadini non possono lasciare l’Ucraina devastata dalla guerra. Alla stazione ferroviaria di Lviv, nell’Ucraina occidentale, FRANCE 24 ha incontrato diversi studenti africani che dicono di essere stati respinti al valico di frontiera di Medyka con la Polonia». Questi sono solo alcuni degli episodi di razzismo che potremmo citare.
Conclusioni. Il razzismo mascherato.
Quanto appena raccontato è semplicemente triste. Noialtri occidentali commentiamo dal nostro altare fatto di moralismo e ipocrisia un evento bellico verso cui noi stessi abbiamo la coscienza sporca. Ma è solo razzismo mascherato. Scrive Patrick Gathara per Al Jazeera che «paradossalmente, le deformità morali dell’Europa sono sotto gli occhi di tutti fin dall’inizio dell’invasione russa […]. Il trattamento che, stando a quanto riportato, le guardie di frontiera ucraine hanno riservato agli africani, agli indiani e ad altre persone di colore che cercavano di lasciare il paese resterà una macchia indelebile sulla resistenza per altri versi eroica del paese contro l’aggressione». E noi non possiamo che essere d’accordo.
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