Sierra de Gata, Spagna, 2015.
Le fiamme divampano nella valle. Gli alberi ardono. Il fumo è denso e si gonfia in nuvole nere. Ana piange e cammina. Ha i brividi nonostante il caldo atroce. La sua casa ormai è quasi cenere. Cerca di salvare il bestiame, le decine di capre che le ha lasciato il nonno. Ma anche loro sono stremate. Tante si accasciano, altre si abbandonano alle fiamme. Ana piange e cammina. Deve lasciare tutto.
Kurigram, Bangladesh, 2020.
L’acqua è fonte di vita, ma qui è la culla della morte. Gunjita piange e cammina. Tiene stretto il suo bambino tra le braccia. Segue gli altri sul muretto che un tempo cingeva la scuola del centro. Si muovono tutti all’unisono, senza parlarsi. Tutto è grigio, in cielo e in acqua: la terra non c’è più. Gunjita piange e cammina. Le fanno male i piedi.
Beribavatt, Mauritania, 2021.
La terra è sempre più arida. Un vento tiepido e stanco alza la terra rossa. Non piove da troppo tempo. Mahmoud piange e cammina. Guarda per l’ultima volta il lago di cui porta il nome. Si sta prosciugando. Non c’è più niente da salvare. I campi sono secchi, gli animali tanto deboli. Mahmoud piange e cammina. La strada sarà lunga.
Tutti e tre sono costretti a lasciare il proprio mondo alle spalle e a guardare avanti, a sperare in una possibilità. Tutti e tre rappresentano le milioni di persone che ogni giorno sono costrette ad abbandonare tutto, perché impotenti di fronte alla forza di madre natura.
È proprio quest’ultima, la natura, che stremata cerca di rispondere alle atrocità che le abbiamo inferto. Quei fenomeni devastanti, considerati straordinari, stanno diventando sempre più usuali: presto entreranno a far parte della nostra quotidianità. “La definizione stessa di evento estremo non si potrà più applicare a quell’evento perché la frequenza sarà più alta, e diventerà quindi normale”, afferma Gianmaria Sannino, responsabile del Laboratorio di Modellistica Climatica e Impatti dell’ENEA.
A rimetterci sono e saranno i popoli che meno hanno contribuito all’inquinamento del pianeta. Nei Paesi in via di sviluppo la natura la fa da padrona: si vive seguendone i ritmi, con lentezza e rispetto. Sarà anche questo a rendere difficile l’adattamento ai canoni imposti dai nuovi standard climatici e, soprattutto, a far fronte alle possibili emergenze.
Il numero dei migranti ambientali è destinato a crescere in maniera esponenziale nei prossimi anni. Come ci dimostrava già il rapporto Myers nel 1995, i profughi climatici entro il 2050 saranno più del doppio di quelli attuali. Saremo in grado di accoglierli? Le istituzioni saranno in grado di proteggerli?
Ad oggi la situazione è già piuttosto delicata. La stessa definizione del loro status risulta complessa: spesso vengono chiamati rifugiati. Ma è giusto definirli così?
Il termine rifugiato, secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, sta ad indicare colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese”.
La persecuzione è un atto basato su una volontà, la natura non può essere considerata persecutrice. Pertanto, risulta improprio utilizzare questo termine per indicare chi fugge da questo tipo di catastrofi. Tuttavia, nonostante non esistano delle vere e proprie direttive nel diritto internazionale per i migranti ambientali, secondo l’UNHCR, anch’essi sono legittimati a godere della stessa protezione, assistenza e supporto di cui godono i rifugiati.
Del resto, ogni essere umano ha dei diritti inalienabili che devono essere salvaguardati ad ogni costo. Le condizioni di cui parla la Convenzione, assicurano assistenza solo a chi scappa da situazioni di conflitto, senza considerare questo tipo di problematiche.
Chiaro è che dal 1951 ad oggi, la realtà ambientale è cambiata moltissimo e i disastri di cui stiamo trattando erano sicuramente meno frequenti all’epoca. È necessario, però, che venga dato il giusto peso ai cambiamenti che il nostro pianeta e il nostro clima stanno vivendo. È fondamentale che venga messa in luce la difficile condizione di chi migra per motivi di natura ambientale: bisogna riuscire a far fronte a questo tipo di emergenze. A chi è costretto a lasciare tutto deve essere assicurata una nuova vita.
I prossimi Ana, Gunjita, Mahmoud, dovranno essere consapevoli che ci sarà qualcuno a tendergli la mano e a permettergli di pensare al futuro. Piangere e camminare non dovrà mai più essere l’unica cosa da fare.
A tutti va assicurato il bene più grande: la vita.