<<Nel mezzo del cammin di nostra vita… >>. La Divina Commedia si apre con una precisa indicazione: la vicenda prende avvio nel 1300, quando Dante ha 35 anni. Il fatto che il Sommo Poeta ritenesse quest’età il «mezzo», il punto centrale della vita, lo spiega in un’altra sua opera, il Convivio, dove, riprendendo un passo biblico, paragona l’esistenza dell’uomo ad un arco il cui apice corrisponde al trentacinquesimo anno di età.
Ha ragione Dante? Siamo sicuri che <<il mezzo della vita>> vada ricercato in una divisione matematica del tempo, ossia tra quello che abbiamo vissuto e quello che presumibilmente ancora ci resta da vivere? O non sia più giusto e, perché no, più esatto attribuire questo significato ad un particolare momento della nostra vita, precisamente a quel momento in cui si acquisisce la consapevolezza della morte in quanto reale, ed il nostro tempo si spezza irrimediabilmente in un prima e in un dopo?
Già Confucio, 2400 anni fa, aveva detto: <<Abbiamo solo due vite: la seconda inizia quando ci rendiamo conto di averne solo una>>.
Quel momento fatidico, il mezzo della vita, può presentarsi per alcuni già in giovane età, per altri in età avanzata, per altri ancora può presentarsi soltanto alla fine della vita. Un evento tragico, la morte di un genitore, di una persona cara, una grave malattia, una forte delusione, ecc., può generare questa ripartizione del tempo, del nostro tempo, in un prima di quell’evento e in un dopo. Se ti raggiunge una tempesta, quando la bufera sarà finita, su un punto non c’è alcun dubbio: che tu, uscito da quel vento, non sarai più lo stesso che vi è entrato
Io ho conosciuto questo momento a 37 anni. Una sera che ero seduto alla scrivania del mio studio, accusai una fitta al petto. Era un infarto. Mia moglie e mia sorella dottoressa si accorsero subito che non si trattava di un malore di poco conto. In ambulanza venni trasportato all’ospedale dove mi fu somministrato un nuovo farmaco, ancora in fase di sperimentazione, che forse fu la mia salvezza.
Fu quello il “mezzo del cammin” della mia vita: da quel momento non sono più riuscito a sbarazzarmi dell’idea della morte. Cambiai stile di vita, ripresi a leggere libri di narrativa e di filosofia, e mi misi a scrivere non soltanto opere scientifiche, ma anche romanzi e racconti. Nasce da quell’evento il mio primo libro LE MIE RAGIONI, “libro un po’ diario, un po’ saggio e un po’ romanzo”, come lo definì nella prefazione il poeta Carmine Manzi. Seguì il mio primo racconto “Andrea”, che vuol essere uno scritto contro la morte e al tempo stesso sulla necessità, per diventare essere umani, della sua accettazione sia da parte mia sia da parte di tutti gli uomini.
Come Van Gogh che instancabilmente ritorna a dipingere i Girasoli, cambiando la prospettiva e la luce, così mi ritrovo, o in prima persona o nascondendomi dietro la maschera di un personaggio, a ritornare sempre, in un indissolubile patto di fedeltà, all’evento terribile e fondativo che mi ha fatto scoprire la precarietà della vita e lo scandalo della morte. Un evento che è insieme personalissimo e universale, perché, in un lampo, rende evidente la finitudine che tutti ci accomuna. Ognuno di noi, prima o poi, deve affrontare la prova di veder scomparire ciò che ama, e tutti dovremo restituire tutto al nulla nel quale, a nostra volta, finiremo per scomparire. Ma da quell’evento amaro nasce anche il mio progetto, folle e coraggioso, di tentare di sconfiggere la morte ricordando uomini e donne che ho amato e facendoli rivivere almeno sulla pagina. La “Vita Nova” generata dalla ferita infertami dal tempo è, innanzi tutto, impegno di scrittura come testimonianza. Testimoniare, infatti, è l’impegno che mi sono assunto a partire da “Andrea”, continuando con “Ehi, dottoressa, che isola?”, fino al recente “Va dove ti porta il cane”.
Non so se sia stato scritto un romanzo che racconta la storia di un uomo che, dopo aver visto scomparire tutte le persone più care della sua vita (i genitori, il cane, un amico, la donna amata), vede sprofondare anche la propria casa. Un libro siffatto, se da una parte è testimonianza della verità del precipitare degli esseri nel nulla; dall’altra, con il suo rammentare pietosamente ciò che è stato e chi è stato, è anche un “no” a quel niente che rimane l’ultima parola del mondo. E forse, allora, è davvero possibile che ogni morto aspetti la sua perfezione in questo risorgere che un superstite con il suo scritto gli offre.
Queste considerazioni, che possono apparire come banalità più o meno filosofiche, sono presenti nelle opere dei maggiori scrittori. Molti romanzi e racconti, credo anche qualcuno dei miei, sono la prova della labilità dei confini tra il genere narrativo e il genere filosofico. Un esempio magistrale è la Recherche di Marcel Proust, opera né completamente romanzo né completamente saggio.
Affidare alla narrativa il compito etico della testimonianza significa anche interrogarsi su quali siano le sue possibilità, sui suoi splendori e sulle sue miserie; significa rendersi conto che il romanzo e il racconto acquistano senso solo in funzione del tempo dove lasciano la loro vana impronta di memoria.